Indipendenza, rispetto o subordinazione?
I “Corpi intermedi” nella relazione con la Politica
La riflessione sul ruolo dei medici come corpo intermedio conduce immediatamente a un tema cruciale: il rapporto tra la professione medica e il potere politico/amministrativo. In particolare, si tratta di capire se i medici vogliono (e possono) agire da attori indipendenti, dotati di una propria autonomia professionale garantita, oppure se debbano essere considerati a tutti gli effetti dei professionisti subordinati tout court a direttive statali o aziendali. Questa dicotomia – libera professione intellettuale vs. subordinazione gerarchica – è tutt’altro che accademica: è il cuore di molti dibattiti odierni sulla sanità, dal contratto dei medici di famiglia alla gestione degli ospedalieri, e determina in gran parte l’efficacia dei corpi intermedi nel sistema pubblico di cui abbiamo parlato.
Per contestualizzare, vale la pena richiamare qualche elemento storico e normativo. La professione medica, in Europa, ha tradizionalmente goduto di un alto grado di autonomia. Già nel Medioevo le corporazioni dei medici e speziali si davano regole proprie; nell’età moderna, i medici erano spesso liberi professionisti a cui le autorità pubbliche si rivolgevano come consulenti, ma che non erano funzionari pubblici in senso stretto. Anche dopo la nascita degli Stati nazionali e dei primi sistemi sanitari pubblici, si è mantenuta una certa distinzione: ad esempio in Italia, quando nel 1978 è stato istituito il Servizio Sanitario Nazionale (SSN) con la famosa riforma che introdusse la legge 833, si scelse di non “statalizzare” completamente i medici. Molti di questi, medici di medicina generale (MMG) ma anche Pediatri di libera scelta e specialisti esterni restarono liberi professionisti convenzionati con il SSN, e non dipendenti pubblici, per capirci, professionisti con orario e paga fissa. Perché questa scelta? In parte per mantenere quella flessibilità e quell’autonomia operativa che consentiva ai medici di famiglia e pediatri di organizzare il proprio lavoro in base alle esigenze locali, e in parte – diciamolo – per riconoscere la peculiarità della relazione fiduciaria medico-paziente, difficilmente inquadrabile in schemi rigidi da impiegato pubblico. Una logica analoga vale tuttora per altre professioni: l’avvocato, ad esempio, esercita una funzione sociale importantissima (difendere i diritti dei cittadini in giudizio) ma non è un dipendente dello Stato; è un libero professionista iscritto a un Albo, soggetto a regole deontologiche e a un Ordine professionale che ne garantisce la qualità e l’etica. L’architetto progetta edifici rispettando normative pubbliche e soddisfacendo bisogni collettivi (pensiamo all’urbanistica), ma anche lui rimane indipendente, non un funzionario statale – a meno che scelga volontariamente di entrare nell’amministrazione. Questa indipendenza delle professioni è un cardine delle società liberali, perché crea quella pluralità di centri di potere che impedisce la concentrazione assoluta dell’autorità. Se tutti – medici, avvocati, insegnanti, giornalisti – fossero inquadrati come dipendenti con obbligo di obbedienza e fedeltà (nel Codice civile italiano esiste proprio l’“obbligo di fedeltà” del lavoratore subordinato verso il datore di lavoro, art. 2105), avremmo una società meno libera, incapace di auto-correggersi. Ciò non toglie, per i medici convenzionati in particolare, che nel tempo si sia evidenziata la mancanza di una vera e propria “Carta dei Servizi” costruita tra Autorità committenti (Stato e Regioni) e professionisti, “Carta” verso cui quella auspicata ”Autonomia”, avrebbe dovuto concentrarsi in una logica di garanzia per cittadini e per gli stessi professionisti.
Non è un caso se i regimi autoritari tendono a diffidare dei professionisti autonomi: nella Cina maoista si perseguì l’ideale dell’intellettuale come ingranaggio o vittima “dello Stato proletario”, e durante la Rivoluzione Culturale molti medici, insegnanti e avvocati furono costretti a rinnegare il proprio status per diventare operai o contadini, completamente soggetti al Partito- Stato. Anche in Unione Sovietica, pur esistendo medici dipendenti dello Stato (il sistema sanitario lì era interamente statalizzato), si vigilava strettamente su eventuali associazioni professionali indipendenti: qualsiasi aggregazione autonoma era vista come potenziale minaccia al monopolio del potere politico. Nei regimi liberali, all’opposto, l’idea è che la libera professione fornisca un contrappeso fisiologico: il medico che non dipende in tutto e per tutto dallo Stato può, se necessario, criticare le scelte dello Stato in sanità senza temere ritorsioni sulla propria carriera; l’avvocato indipendente può difendere il cittadino contro un abuso governativo senza essere a sua volta un impiegato del governo. È quella dinamica dei “poteri contro poteri” che garantisce l’equilibrio: Montesquieu la teorizzò per le tre funzioni statali (esecutivo, legislativo, giudiziario) e la democrazia moderna l’ha estesa anche alla società civile con i corpi intermedi e l’autogoverno delle professioni.
In Italia, oggi, questo tema si declina in questioni molto concrete. Pensiamo ai medici di famiglia (MMG): come detto, essi sono tuttora convenzionati, non dipendenti. Ma periodicamente torna nel dibattito politico l’ipotesi di assumerli nel Servizio Sanitario come dipendenti delle ASL al fine di utilizzarli “liberamente” nelle Case e Ospedali di Comunità in funzioni non chiaramente declinate. Da un lato c’è chi sostiene che farli diventare dipendenti permetterebbe un controllo maggiore degli orari, degli standard, dell’integrazione con i servizi distrettuali (superando l’“anomalia” del medico di base che gestisce in autonomia il proprio ambulatorio). Dall’altro lato, molti MMG temono che perderebbero quella flessibilità che consente loro, ad esempio, di dedicare più tempo ai pazienti quando necessario, di organizzare il lavoro secondo le esigenze territoriali, di essere insomma padroni della propria agenda. Ma soprattutto perderebbero la libertà di parola: un medico di base dipendente potrebbe criticare apertamente l’organizzazione impostagli dall’ASL o verrebbe zittito dal primario/dirigente di turno? Il rischio concreto è il secondo. Una volta che i medici del territorio fossero incardinati come dipendenti pubblici, verrebbe naturale per l’azienda sanitaria applicare gli stessi vincoli che hanno gli altri dipendenti: obbligo di attenersi ai protocolli, alle circolari amministrative, e – implicitamente – minor tolleranza verso voci fuori dal coro. L’obbligo di fedeltà aziendale per un dipendente significa, ad esempio, che non può criticare l’operato del datore di lavoro: tradotto, un medico di base dipendente che denunciasse pubblicamente o con il proprio assistito difetti o cattiva gestione di una ASL potrebbe essere richiamato o sanzionato per violazione del dovere di lealtà. Oggi, essendo libero professionista convenzionato, quel medico ha formalmente più margine di esprimere il proprio dissenso esercitando liberamente il proprio ruolo di garanzia.
Non si tratta di difendere privilegi corporativi, ma di capire qual è la migliore configurazione istituzionale per servire i cittadini. Un medico totalmente subordinato, ridotto a terminale ultimo di decisioni altrui, può davvero tutelare efficacemente la salute delle persone? Oppure finisce per essere schiacciato tra ordini superiori e bisogni del cittadino..? L’esperienza insegna che i professionisti intellettuali possono meglio garantire il proprio contributo se dotati di adeguata autonomia e responsabilizzazione, piuttosto che burocratizzati o condizionati. Un esempio virtuoso spesso citato è quello della magistratura: i giudici e i PM in Italia (come in molte democrazie) godono di indipendenza funzionale – non possono essere licenziati o spostati dal ministro secondo il capriccio politico del momento, e si autogovernano tramite il Consiglio Superiore della Magistratura. Questa autonomia serve a garantire ai cittadini giudici imparziali, che non temano ritorsioni per le loro sentenze. Ebbene, il mestiere del medico non è forse, a suo modo, altrettanto rilevante? – ci si chiedeva provocatoriamente in una nostra recente discussione. Se esiste un organo di autogoverno per i magistrati, perché non pensare a qualcosa di simile per i medici? Dopotutto, anche i medici prendono decisioni vitali, maneggiano la fiducia pubblica, possono fare la differenza tra la vita e la morte di una persona o tra la salute e la malattia di una comunità.
A ben guardare, qualcosa del genere esiste già: è l’Ordine dei Medici (FNOMCeO a livello nazionale, gli Ordini provinciali sul territorio). Gli Ordini professionali, istituiti per legge, sono formalmente gli organi di autogoverno delle professioni sanitarie (e di altre, come gli avvocati, i farmacisti, etc.). In teoria, dunque, la categoria medica dispone già a sua volta di un organismo riconosciuto e legittimato, con compiti di tutela della deontologia, rappresentanza presso lo Stato, e anche potere disciplinare sugli iscritti. Tuttavia, va riconosciuto che negli ultimi decenni il ruolo degli Ordini si è un po’ appannato agli occhi dei medici stessi: molti li percepiscono come enti burocratici formali (quasi “para-statali”), più impegnati a gestire l’albo e i crediti ECM che a fare vera politica professionale. Diversamente dai sindacati, che almeno portano avanti vertenze contrattuali, gli Ordini sono stati raramente percepiti come “organi di autogoverno” professionale. Eppure, per legge lo sono: la loro ragion d’essere è garantire che l’esercizio della medicina avvenga in autonomia e qualità, nell’interesse della collettività. Forse è giunto il momento di rivitalizzare questi organi, di farli diventare fulcro di proposte e azioni a tutela non solo dei medici, ma dei pazienti attraverso i medici. In tempi recenti qualche segnale c’è stato: ad esempio, la FNOMCeO ha lanciato campagne per ricordare l’importanza del medico di famiglia e della fiducia nel curante, reagendo a dichiarazioni politiche superficiali.
Ricordiamo un episodio emblematico: nell’agosto 2019 un alto esponente politico, Giancarlo Giorgetti, allora sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, parlando a un convegno affermò con disinvoltura: “Nei prossimi 5 anni mancheranno 45 mila medici di base, ma chi va più dal medico di base, senza offesa per i professionisti qui presenti? ... Chi ha meno di 50 anni va su Internet e cerca lo specialista. Il mondo in cui ci si fidava del medico è finito”. Questa dichiarazione – “chi va più dal medico di base?” – fece scalpore. Implicitamente, sminuiva il ruolo del medico di famiglia riducendolo a un relitto del passato, sostituibile con una rapida ricerca online di specialisti, come se la medicina territoriale fosse un orpello superfluo. La reazione dei corpi intermedi non tardò: la Federazione degli Ordini (FNOMCeO) e vari sindacati difesero pubblicamente l’importanza della medicina generale, e citarono dati a confutare Giorgetti. Uno su tutti: il 87,1% degli italiani dichiara di fidarsi del proprio medico di famiglia secondo il sondaggio CENSIS del 2022, percentuale altissima che smentisce l’idea di un rapporto in crisi. Altro che “mondo finito”: la gente continua a rivolgersi al medico di famiglia come primo riferimento, e semmai è la politica che ha il dovere di investire per rendere questo servizio più moderno ed efficiente, non di denigrarlo. Quest’episodio è illuminante: un rappresentante politico propugna, forse per provocazione ideologica, un modello di sanità senza medici di base, ma il corpo intermedio (gli Ordini, le associazioni dei medici) interviene nel dibattito e porta evidenze e argomenti a difesa del valore insostituibile di quei professionisti. In gioco non c’era solo l’orgoglio di categoria, ma la tutela di un interesse pubblico: il medico di famiglia come presidio di equità (evitando che solo chi può pagarsi lo specialista abbia cure), di appropriatezza (filtrando richieste inutili di visite specialistiche) e di prevenzione.
È evidente dunque che se i medici abdicassero al loro ruolo indipendente, qualcuno dall’esterno potrebbe decidere di ridimensionarli drasticamente, magari in buona fede, convinto che “tanto non servano più”. Lo spazio politico non sopporta il vuoto: se un corpo intermedio è debole o assente, il potere centrale tenderà a occuparne le funzioni. Ma a quel punto la prospettiva cambia: il medico da soggetto attivo diviene semplice oggetto su cui altri decidono. Ecco perché è fondamentale che la professione medica mantenga e rafforzi la propria autonomia di giudizio e la capacità di proposta e reale partecipazione nelle sedi istituzionali. Ciò non significa arroccarsi in una difesa corporativa dell’esistente; al contrario, significa essere presenti e propositivi nei processi di riforma. Ad esempio, se si discute di trasformare l’organizzazione delle cure primarie (come oggi avviene con i progetti di Case della Comunità, équipe multiprofessionali, ecc.), i medici devono essere parte della progettazione, non solo esecutori di modelli decisi altrove. Devono portare la loro esperienza sul campo al tavolo, indicare cosa può funzionare e cosa no, suggerire aggiustamenti. Essere indipendenti non vuol dire “fare da soli” ignorando le direttive pubbliche; vuol dire collaborare da pari con le istituzioni, sedersi al tavolo di progetto con un peso specifico dato dalla propria competenza e dal proprio ruolo professionale e sociale.
Un altro aspetto importante del rapporto politica-professione è il tema della subordinazione contrattuale. Abbiamo parlato dei medici di famiglia, ma guardiamo ai medici ospedalieri: essi sono formalmente dipendenti del Servizio Sanitario Nazionale, con un contratto da dirigenti medici. Dunque si potrebbe dire: qui l’indipendenza non c’è, sono subordinati. In realtà, lo status dirigenziale in sanità fu introdotto proprio per dare maggiore autonomia clinica: a differenza di un impiegato di concetto, il dirigente medico, proprio in quanto dirigente, possiede un certo ambito di discrezionalità nell’esercizio della sua funzione. Egli deve rispettare le linee guida e organizzative, certo, ma rimane responsabile in prima persona delle decisioni cliniche e ha doveri deontologici che vanno oltre l’obbedienza aziendale. In teoria, un medico dirigente potrebbe sottrarsi a un ordine di servizio se lo ritiene contrario alla buona pratica o ai diritti del paziente, appellandosi alla deontologia e alla clausola di coscienza. Tuttavia, nella pratica quotidiana questa autonomia è spesso limitata: le pressioni di budget, i piani operativi regionali, le direttive dei superiori condizionano molto l’agire dei medici dipendenti. Perciò anche tra loro emerge talora la frustrazione di sentirsi ridotti a ingranaggi di un sistema che non lascia spazio alla professionalità individuale. Ecco perché diventa cruciale l’esistenza di associazioni professionali e sindacati che facciano valere la voce dei medici dipendenti e talvolta anche della “Scienza” nelle sedi di contrattazione e nei confronti delle direzioni.
Notiamo allora che indipendenza o subordinazione non è una scelta binaria scolpita nel contratto, ma piuttosto uno spettro di situazioni. Anche un medico formalmente dipendente può mantenere un forte grado di indipendenza intellettuale e sostanziale se lavora in un contesto che lo rispetta e lo coinvolge nelle decisioni (ad esempio, in alcuni ospedali dove i clinici partecipano alla governance) e laddove esistano specifiche clausole normative di tutela e garanzia. Viceversa, anche un libero professionista convenzionato potrebbe per paradosso essere maggiormente condizionato laddove operante isolato e non supportato da un’adeguata rete professionale che lo supporti. Ciò che davvero distingue l’indipendenza è la presenza di norme e garanzie istituzionali e un forte senso di appartenza professionale. Le garanzie istituzionali sono quelle norme che proteggono l’autonomia tecnica: per i giudici è l’irremovibilità, per i medici potremmo citare l’articolo 4 del Codice Deontologico che recita: “Il medico nell’agire professionale deve ispirarsi alla tutela della vita, della salute, della libertà e della dignità della persona... e non deve soggiacere a interessi, imposizioni o suggestioni di qualsiasi natura”. Questo articolo, adottato dall’Ordine, sancisce che il medico non deve soggiacere a imposizioni: è quasi un manifesto di indipendenza etica, ma è da solo sufficiente questo articolo nel contesto attuale? Lo spirito di corpo, d’altro canto, è ciò che fa sì che i medici si sostengano a vicenda nel rivendicare condizioni idonee per esercitare bene la professione. Se i medici non sono uniti, saranno facilmente “comandati”; se sono uniti, possono far valere le loro ragioni non per interesse egoistico, ma per migliorare tutto il sistema sanitario.
Facciamo un esempio pratico di questi concetti: l’emergenza COVID-19. Nei primi mesi del 2020, i medici italiani – ospedalieri e territoriali – si sono trovati ad affrontare una crisi senza precedenti.
Partendo dalla prima collega Anestesista che a Bergamo scelse di violare i protocolli accertando il primo caso di COVID, per seguire a tutti coloro che hanno scelto di seguire la scienza e la propria coscienza, innumerevoli sono stati gli episodi nei quali le professioni hanno dovuto farsi sentire. All’inizio mancavano dispositivi di protezione individuale, indicazioni chiare, strutture adeguate. Molti medici, specialmente di base, hanno denunciato pubblicamente di essere mandati allo sbaraglio senza mascherine né tamponi. Quelle denunce, spesso fatte attraverso associazioni e Ordini, sono state fondamentali per far correre ai ripari le istituzioni (che inizialmente minimizzavano o esitavano). Medici e infermieri hanno persino minacciato di non svolgere attività a rischio se non forniti di protezioni, il che ha portato il governo a intervenire con forniture urgenti e protocolli nuovi. Questo è un tipico caso in cui l’indipendenza di giudizio e la forza di corpo intermedio dei camici bianchi hanno probabilmente salvato delle vite – le loro e quelle dei pazienti – correggendo rapidamente errori di sottovalutazione da parte delle autorità. Immaginiamo se i medici fossero stati totalmente zitti per paura di ritorsioni: la narrazione ufficiale “va tutto bene” sarebbe forse continuata più a lungo, con conseguenze disastrose. Fortunatamente la professione, pur con fatica e dolore, ha saputo farsi sentire.
In conclusione: il medico come corpo intermedio funziona solo se mantiene un sufficiente grado di indipendenza. Ciò non vuol dire anarchia ma darsi regole sino al rifiuto di regole date quando incongrue – i medici rispettano le leggi e riconoscono l’autorità dello Stato, com’è giusto. Ma vuol dire che all’interno di quello spazio di rispetto della legge, rivendicano la libertà di giudizio professionale e la libertà di parola a tutela della salute. Indipendenza significa che un medico può dire “questo protocollo ministeriale è inapplicabile” senza per questo essere accusato di slealtà; significa che un gruppo di medici può proporre un modello organizzativo alternativo e discuterlo con la politica alla pari; significa che il sapere tecnico non è schiavo della burocrazia, ma dialoga con essa da una posizione di pari dignità.
La subordinazione pura e semplice, al contrario, ridurrebbe il medico a un operatore sanitario qualsiasi, privo di quella auctoritas che invece deriva dall’essere parte di una comunità professionale autoregolata. Un medico subordinato, timoroso del dirigente gerarchicamente superiore, tenderà a seguire pedissequamente ordini e linee guida anche quando li ritiene sbagliati, per non mettersi nei guai: e così facendo, abdicherebbe al suo ruolo di coscienza critica e di fiduciario del paziente. Un medico autonomo, invece, seguirà linee guida e ordini quando sono sensati, ma avrà il coraggio di segnalarne le falle se necessario, e proporrà migliorie forte della propria competenza.
La posta in gioco è alta: riguarda la qualità del nostro Servizio Sanitario e la tenuta stessa dei valori democratici in ambito sanitario, nonostante le evidenti difficoltà di bilancio. In una democrazia matura, lo Stato non teme i corpi intermedi, anzi li riconosce come elementi essenziali. La politica saggia cerca il confronto con i medici (così come con gli insegnanti, con i magistrati, etc.) sapendo che solo integrando le competenze si governano sistemi complessi. Quando invece la politica – magari per venature populiste o managerialistiche – cerca di “bypassare” i corpi intermedi e comandare dall’alto, nel breve periodo può sembrare di ottenere efficienza, ma nel lungo periodo crea alienazione, conflitto e inefficienza latente. Un esempio: se un governo regionale decide unilateralmente standard, turni e compiti dei medici senza ascoltare chi lavora sul campo, può darsi che sulla carta ottenga più ore coperte o più prestazioni; ma se quelle misure non tengono conto della realtà, i medici le subiranno mal volentieri, magari le boicotteranno in silenzio o daranno le dimissioni appena possibile, e alla fine il sistema ne soffrirà, (liste d’attesa che si allungano perché mancano specialisti, ambulatori scoperti perché nessuno accetta certi incarichi, sistemi di emergenza urgenza che hanno subito imposizioni politiche non condivise… etc..).
Coinvolgere e rispettare la categoria medica conviene allo Stato stesso, perché ne migliora i servizi.
Il messaggio finale di questo capitolo: difendere l’indipendenza del medico come pilastro del suo essere corpo intermedio. Ciò implica rafforzare gli Ordini professionali rendendoli più rappresentativi e incisivi, implica avere sindacati moderni che non pensino solo a scatti economici ma anche alla qualità del lavoro, implica educare i medici stessi – sin dall’università – a concepirsi come parte attiva del sistema e non come semplici dipendenti attendisti. Subordinazione non deve far rima con sottomissione. Dobbiamo perseguire un modello in cui il medico possa essere al contempo servitore dello Stato (nel senso più alto, servitore del bene pubblico) e voce libera che dice la verità al potere quando serve. Come ricordava un motto attribuito a Thomas Jefferson, “il prezzo della libertà è l’eterna vigilanza”: i medici, in quanto corpo intermedio della sanità, devono vigilare per la libertà e la qualità del sistema sanitario. Solo così potranno onorare appieno il loro ruolo e la fiducia che i cittadini ripongono in loro.